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racconto di natale " un'amara riflessione "...................................... di giuseppe

05:54 / Pubblicato da niko /











Percorrevo una importante via del centro città in una fredda sera d’inverno, ormai prossima al Natale.





Osservavo la gran folla di gente che animata da una intima frenesia, con passo sicuro e affrettato, percorreva la strada, soffermandosi a osservare le vetrine dei negozi riccamente addobbate, con l’ostentato distacco e la noncurante indifferenza tipici di chi, per la troppa abbondanza del vivere, è ormai ricco solo della propria vanità.



Le luminarie ed i festoni natalizi conferivano, vieppiù, un’atmosfera di opulente salotto buono a quella strada dalla sfavillante sequela di lussuosi esercizi commerciali, in cui aristocrazia e alta borghesia si mescolavano non solo per gli ultimi, frettolosi acquisti e regali, ma anche per l' inconfessata motivazione di sperare di imbattersi in questo o quell’incontro per scambiarsi convenevolmente gli auguri; quasi fosse convenzione sociale non scritta ma meritevole di essere pedissequamente osservata quella di fare passerella in caldi e confortevoli abiti e di sforzarsi di elargire meccanicamente stereotipi sorrisi e vuoti saluti a quanti si aveva la recondita speranza di incontrare con l’unica riserva mentale di farsi ammirare.



Avanti a me, precedendomi di pochi metri, camminava una povera donna.



Gli stenti ed i disagi di una esistenza condotta nel bisogno e nell’indigenza, tra le mille e mille difficoltà economiche che quotidianamente dovevano attanagliare la sua mente, ponendole incessantemente innanzi al lume della ragione il problema di come industriarsi per riuscire a conciliare insieme un misero pranzo con una frugale cena, ben si leggevano in quel misero abito liso e sdrucito che la rivestiva, in quella capigliatura scarmigliata, in quelle scarpe logore, in quel suo incedere incerto e dimesso, pensieroso e preoccupato: a capo chino, quasi che per lei rappresentasse un penoso disagio perfino alzare lo sguardo per osservare il passeggio austero e compunto dei benestanti e degli aristocratici che affollavano quella strada.



La donna non era sola. Teneva per mano un bimbetto di neppure dieci anni che la seguiva dappresso, anch’egli coperto dei medesimi poveri indumenti della donna e partecipe della stessa penosa condizione economica e sociale.



I due, a passo lento e cadenzato, camminavano mano nella mano.



Uniche due isole di genuina e dolorosa umanità in un mare ondeggiante di alterigia e di vanitosa ipocrisia.



Ad un tratto la donna solleva lievemente il capo. Qualcosa sembra aver attirato la sua attenzione.



Dalla presa della mano che stringeva quella del bambino che stava poco dietro di lei, la donna avverte, dall’aumentata resistenza muscolare che quel contatto fisico le trasmette, che il fanciullo rallenta, perde il passo.



Istintivamente si volta, quindi, per comprendere il perché.



Con occhi abbacinati ed increduli, la bocca socchiusa in quella espressione di ingenuo stupore che rende radioso il volto dei bambini, il fanciullo sta osservando, con lo sguardo carico di desiderio, la vetrina di un negozio di giocattoli che è alla sua destra e nella cui vetrina sfolgorante di luci e di addobbi fanno bella mostra di sé una gran miriade di allettanti giocattoli, di ogni tipo e per ogni gusto. Tutti di pregevole fattura e, di conseguenza, molto costosi.



La donna lo osserva commossa e quasi spaventata da ciò che bambino infatuato sta mirando in quel momento e gli mormora sconsolata: “Da questa parte, devi guardare da questa parte”, reclinando leggermente in capo in quell’altra direzione, a mo’ di dolce invito.



Dall’altro lato della strada, infatti, seduti sul marciapiede di quella via dello shopping di alta società, alcuni extracomunitari tentano di vendere quel tanto che basta alla loro sopravvivenza quotidiana, messo in mostra per terra su povere e sudice stuoie di canapa: semplicissimi articoli di artigianato africano di scarsissimo valore economico: cavallini di legno, pupazzi di pezza e trottole; prodotti manufatturieri autoctoni confezionati da chissà quali mani smagrite dalla miseria, dalla fame e dalle malattie.



La donna, con quelle parole, vuole dire: “Figlio mio adorato, tu guardi la vetrina di quel negozio. Ed è giusto. Gli occhi sono attratti dalla luce ed il cuore dai desideri. Il tuo cuore desidera quei giocattoli. Lo so. Desiderare non è peccato. È ciò solo che ci possiamo permettere nella nostra condizione. Certo quei giocattoli sono belli, senza dubbio. Sono raffinati, importanti, farebbero la felicità di qualsiasi bambino. La vetrina ricca di luci e di colorati addobbi in cui sono esposti, li rendono ancora più belli. Tu li desideri, è ovvio, come li desidererebbe qualunque altro bambino al tuo posto. Ma io purtroppo non posso comprarteli: la vita, che mi ha voltato le spalle, che ha deluso le mie speranze di felicità e tradito le mie aspettative di agiatezza, non lo ha voluto, non me lo ha permesso. I giocattoli che ti posso comprare stanno, invece, da quest’altro lato della strada”.



La madre tira leggermente la mano perché il figlioletto possa riaversi da quello stato di estasi sognante in cui tutti i suoi sensi sono, momentaneamente e senza speranza alcuna, immersi ed annegati, per poter riprendere così il loro mesto andare.



La sua anima , come la lama di una invisibile ed affilata spada che la trapassa da parte a parte, è trafitta nel profondo da una lancinante tristezza per non poter corrispondere alle silenziose, ma non per questo chiare ed evidenti, preghiere del figlioletto; per non potere materialmente dare esaudimento ai voti che il bambino, con gli occhi sbarrati e fissi sulla vetrina del negozio di giocattoli, sta in quel momento formulando nel suo cuore innocente e che lei, con il suo cuore materno, intuisce perfettamente.



“Da questa parte”, gli sussurra ancora una volta, tirandolo lievemente, con la voce soffocata dai singulti del pianto e con gli occhi colmi di lacrime: “Devi guardare da questa parte”.

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